Equo compenso: casi pratici

Equo compenso: casi pratici

Quando ricorre la violazione dell’equo compenso?

 

Nello scorso articolo di approfondimento abbiamo avuto modo di evidenziare alcune delle pratiche più ricorrenti poste in essere dai contraenti forti in violazione delle norme sull’equo compenso.

Andiamo ora ad esaminarle nello specifico, con casi concreti:

Il primo caso, ossia quello rappresentato dalle clausole che non prevedono un compenso equo e proporzionato all’opera prestata, tenuto anche conto dei costi sostenuti dal professionista, sono certamente quelli più frequenti ma, allo stesso tempo, di più difficile individuazione e contrasto.

Il concetto di compenso “equo e proporzionato”, infatti, è abbastanza oscuro, soprattutto in virtù della sostanziale abolizione delle tariffe.

Quando, allora, si può definire un compenso come non “equo”?

Certamente non si può non farsi aiutare dai parametri di legge che, pur non prevedendo delle vere e proprie tariffe, indicano comunque i criteri di massima cui ci si deve attenere per qualificare un compenso come conforme ad equità, criterio necessariamente ampio per definizione.

È purtroppo sempre più frequente, infatti, assistere al fenomeno di banche, assicurazioni e grandi aziende (anche pubbliche) che offrono convenzioni ai professionisti a prezzi veramente vili e che spesso riconoscono al professionista un compenso veramente risibile per una intera procedura (spesso ricorsi per ingiunzione ma anche cause ordinarie).

I committenti sembrano ignorare che un avvocato, anche per predisporre un semplice decreto ingiuntivo, impiega tempo e risorse lavorative (praticanti, segretarie, collaboratori) che non possono essere sviliti “un tanto al chilo” …

Molto frequenti, purtroppo, anche gli inserimenti, all’interno dei contratti di conferimento di incarico professionale, di clausole che prevedono la pattuizione di compensi inferiori a quelli stabiliti dai parametri di liquidazione previsti.

Spesso si possono leggere (soprattutto, ahimè, nei bandi emanati dalla P.A.) che il compenso verrà determinato sulla base dei minimi parametrali, con un ulteriore ribasso percentuale, sovente imposto dallo stesso committente.

Ecco che anche in questo caso, quindi, non si può certo parlare di compenso equo, ma di vera e propria svendita di prestazione.

Un altro frequente caso di clausole in violazione dell’equo compenso sono quelle che vietano al professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione o che impongano anticipazioni di spese o che attribuiscono al committente vantaggi sproporzionati rispetto alla quantità e qualità del lavoro svolto o del servizio reso

Sono ben noti i tempi fisiologici del processo in Italia e pretendere che il professionista non richieda la corresponsione di acconti per l’attività fino a quel momento prestata non è sicuramente conforme ad equità; lo stesso dicasi per la richiesta di anticipazioni degli esposti a carico del professionista, spesso rimborsati dopo parecchi mesi, con un evidente danno ulteriore ed immediato, visti gli importi spesso sostenuti di Contributo Unificato e marche da bollo.

Da ultimo, vengono considerate nulle le clausole che prevedano la facoltà di modifica unilaterale del contratto o di richiesta di prestazioni aggiuntive gratuite o, ancora, la previsione di termini di pagamento superiori ai 60 giorni dall’emissione della fattura o che riconoscano all’avvocato il solo minor importo previsto dalla convenzione, nel caso in cui il giudice liquidi al cliente le spese legali in misura superiore.

Tra tutte le tipologie di clausole esaminate, quelle appartenenti a tale ultima categoria si possono considerare indubbiamente le più svilenti della professione.

Fortunatamente occorre premettere che la modifica unilaterale del contratto non è un’evenienza che accade troppo spesso, anche perché evidentemente vessatoria e immediatamente perseguibile con i rimedi previsti dalla legge.

Più frequenti, invece, le altre clausole, che mettono ancora una volta il professionista in una posizione di forte ed ingiustificato svantaggio rispetto al committente.

Pagamenti ritardati e spesso “elemosinati” dal legale nei confronti del proprio “datore di lavoro” costituiscono quasi un must nei rapporti contrattuali tra contraente forte ed avvocato, in spregio al principio di indipendenza e autonomia della professione.

Ancora più insopportabile la previsione della clausola che prevede la ritenzione, a favore del committente, delle somme eventualmente eccedenti la pattuizione del compenso, in caso di maggiore liquidazione operata dal Giudice.

Si badi bene che questa è un’evenienza facilmente ricorribile, posto che, stanti i modesti compensi imposti in sede di contrattazione da parte del committente, può facilmente capitare che in caso di esito positivo della vertenza, il Giudice liquidi anche più del doppio di quanto concordato al conferimento dell’incarico.

In buona sostanza, ancora una volta, il committente si avvicina sempre di più a diventare il “padrone” del proprio avvocato, invece di rimanere, semplicemente, un cliente.

 

Nel prossimo articolo esamineremo i rimedi apprestati dalla nuova norma nel caso di violazione dell’equo compenso.

 

G.D.

 

 

 

 

No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.